This Is The End: titoli di coda con la voce crepuscolare di Jim Morrison. Fine della storia. Che altro dire, se l'ultimo gol messo a segno da un attaccante del Verona risale alla goleada corsara di Firenze, quando fu Kean a firmare una doppietta. Era il 28 gennaio. Poi sono arrivate le reti di Valoti contro il Torino e il colpaccio di Caracciolo nel derby (10 marzo, ultimo gol su azione). Quindi Romulo ha infilato due rigorini contro il Cagliari e ieri a Genova. Gocce nel deserto. Pie illusioni. Nel frattempo, gol abbiamo continuato a subirne a grappoli con un fardello di aritmetica regolarità. Bilancia dei pagamenti in profondo rosso. I lisci dello sventurato Matos a Marassi non sono che lo specchio di un rapporto con la porta avversaria, simile a quello del leader nordcoreano Kim con il proprio parrucchiere. Diciamo relazioni quantomeno complicate. La corsa è finita, e finalmente, verrebbe da aggiungere. La fatidica frase che mai vorresti sentire “Manca solo la matematica” riecheggia nell’etere e sa di presa per i fondelli. In realtà il Verona è in B da un bel pezzo, vale a dire dal pomeriggio del 4 marzo (agli annali Un Giorno da Cani a Benevento), quando la squadra firmò la resa incondizionata provocando lo sconquasso delle dimissioni del vulcanico Filippo Fusco. Tutto quello che è venuto dopo non è stato che un inevitabile (ce lo saremmo tuttavia risparmiato volentieri) supplizio cui, nostro malgrado, abbiamo assistito inermi. Una pena.
In passato non ci furono risparmiate critiche per aver sposato una linea garantista asserendo che in caso i processi li avremmo fatti a tempo debito. Se altri il pennone della forca l'hanno sommariamente innalzato già alla prima giornata di campionato, buon per loro, ma non fa per noi. Ora però, di fronte ad un palese fallimento, quel momento è arrivato. Fabio Pecchia è l'uomo più solo di tutta la galassia del pallone italiota. Mai amato, i problemi sono per lui iniziati con le squillanti sconfitte rimediate lo scorso anno con Novara e Cittadella. I tonfi di Latina e Avellino non fecero che aggravare le cose. Poi seppe raddrizzare la barca e la condusse in porto, ma ormai il rapporto con la piazza era bello che compromesso, tanto che non gli fu riconosciuto alcun merito per la promozione raggiunta, anzi. Le acque si chetarono un poco, ma in cuor nostro sapevamo che si trattava di una tregua e chi i nodi sarebbe tornati presto al pettine. La questione è riesplosa puntualmente con la decisione di spedire in panchina Pazzini alla prima partita della nuova stagione contro il Napoli. Delitto di lesa maestà (curioso che l'allenatore del Levante lo mandi in tribuna) imperdonabile. Da lì la sua avventura sulla panchina dell'Hellas è stata un calvario. Ha provato a ruotare Bessa, l'unica pedina di qualità in mezzo al campo, a seconda delle necessità, ricevendone in cambio uno sdegnato rifiuto. Ricoperto dei peggiori insulti, l’impronunciabile nome di Fabio Pecchia non viene nemmeno scandito dallo speaker del Bentegodi alla lettura delle formazioni. A questo siamo arrivati. L'allenatore è giovane, ha poca esperienza e non è un mago, ha fatto molti errori, si è avvinghiato su qualche dogma di troppo (Nicolas? Souprayen? Fares centravanti?), ma va detto che in mano non aveva praticamente nulla. Ha cercato invano una soluzione al rompicapo quando il rompicapo la soluzione non l'aveva. È alla fine andato in confusione smarrendosi nei labirinti della disperazione. La squadra era di una pochezza disarmante: troppe scommesse, vecchie o giovani che fossero, nessuna certezza. Provate un po' voi.
Questo è ciò che Fusco gli ha messo a disposizione, non per chissà quale recondito motivo, ma semplicemente perchè di più non poteva fornirgli. Questo sciagurato Verona è stato costruito in totale austerity pescando ai saldi senza un fondamento di idea alla base. Se ad esempio le altre due neopromosse Spal e Benevento hanno messo sul tavolo budget importanti, Fusco il budget nemmeno lo aveva. Certo, anche lui i suoi belli sbagli li ha commessi, primi fra tutti non risolvere la grana Pazzini a giugno e impantanarsi nei capricci di Cassano, ma siccome i quattrini con cui andare a fare la spesa a un supermercato di qualità non li aveva, il carrello ha dovuto prenderlo al discount. Il conto l'ha presentato poi il campo. Chiariamo un punto: Fusco altro non ha fatto che il lavoro per cui era stato chiamato, cioè portare a compimento il risanamento finanziario mettendo insieme una squadra tra tagli di spesa e innesti a costo zero. Nemmeno a gennaio ha potuto spendere un centesimo. Di fronte alla penuria tecnica, ha fatto leva sulla coesione del gruppo, ha vissuto a contatto con la squadra notte e giorno, ha difeso l'allenatore fino all'ultimo arrivando persino a farsi da parte lui stesso in un eccesso d'ira di fronte all'ammutinamento di Benevento. Pecchia è rimasto così al suo posto in panchina, salvo ritrovarsi ancora più solo. Nel mirino della rabbia popolare, Fusco è andato via tra gli strali sbattendo la porta dello spogliatoio del Vigorito; si è quindi trincerato nel fragoroso silenzio dei suoi tormentati pensieri su ciò che avrebbe potuto essere e alla fine non è stato. Da uomo d’azienda, ha lavorato per il bene della società, perché quello era il suo compito. Lo ha portato a termine ma, piaccia o no, quella è la colpa che paga. È l’alto prezzo dell’impopolarità. Lo sa bene anche lui.
A Filippo Fusco questo gravoso incarico è stato affidato da Maurizio Setti. Il presidente ha commesso il più banale degli errori di valutazione: ingolosito dai ricchi canditi sulla torta del pallone, a Verona ha masticato un boccone in più del dovuto; gli è risultato indigesto. Nei primi tre anni di gestione ha speso sul mercato, raccolto successi sul campo lasciandosi però andare a toni ambiziosi finendo in tal modo per alzare non poco l’asticella delle aspettative: le ha poi disattese abbassandola repentinamente una volta scoperto che i conti non tornavano. Da Dortmund è sceso in un baleno di viaggio sola andata fino a Crotone (a noi andrebbe benissimo, se significa rimanere in serie A), ma vallo un po’ spiegare al popolo dopo che gli hai venduto sogni. Più del presente, preoccupa il futuro; Gino Bartali direbbe che qui come minino «l’è tutto da rifare». Ok, ma come? Dopo i tempi delle missive e i monologhi in video, il presidente è ripiombato nel silenzio. Sua cattiva abitudine, ci permettiamo di aggiungere. Due retrocessioni in tre anni stanno lì a dimostrare che sostenere i costi di una serie A è per lui un problema. Ci permettiamo di consigliargli di uscir fuori dal suo Buen Retiro carpigiano e spiegare con argomentazioni valide come intende ripartire e se soprattutto esistono idee e progetti concreti per il futuro. Nessun pregiudizio, nessuna preclusione: se lo farà, saremo i primi a tendergli idealmente la mano. Una retrocessione non è la fine del mondo, ne abbiamo viste tante disastrose come e se non più di questa. Il karma del Verona è in un ascensore che sale e scende. Nulla di nuovo. Vorremmo però capire cosa almeno ci si prospetta. Altro, tipo lo stucchevole chiacchiericcio su fantasmagorici acquirenti veronesi di cui sempre si parla e mai si vede traccia, non solo non ci appassiona, ma ci ha pure stancato. Parli solo Maurizio Setti. Il presidente è lui, la società è sua. Il diritto di sapere, nostro.
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