Il derby? Un Blind Trust. Alla vigilia, ci avremmo messo la firma sulla fiducia. Vinci due partite di fila (cosa mai successa quest’anno), batti il Chievo vendicando la ferita dell’andata, mettendo in guai seri i cugini, e accorciando le distanze sul treno inseguitore. Tutto in una notte, che vuoi di più? Ma oltre a tutto questo, è qualcos’altro di ben più importante e significativo a confortarci: il Verona, pur con tutti i suoi limiti, è una squadra. Esserlo significa saper soffrire, andare oltre, dare tutto quello che c’è, e votarsi uniti (senza fighetti supponenti e primedonne insofferenti) al sacrificio lottando fino a che c’è ancora in serbatoio una goccia di energia da spendere. Questo Verona mostra di aver appreso come si fa. Alla faccia delle Cassandre che lo avevano già liquidato e condannato senza appello alla discesa a precipizio agli inferi. Tutto è ancora in ballo, l’impresa rimane a dir poco complicata, ma siamo vivi e possiamo crederci. Mica poco, visto il clima che regnava all’indomani del disastro casalingo con il Crotone e i rovesci, colpaccio di Firenze a parte, che ne sono seguiti. 

Avevamo scritto come il successo sul Torino avesse fornito oltre a tre punti preziosi, indicazioni molto positive aprendo il campo a un’inversione di rotta. La squadra nel momento più difficile e delicato, aveva tenuto ed era stata capace, passata la buriana, di andare a prendersi la partita. Nemmeno tanto tempo addietro, con ogni probabilità si sarebbe disunita e avrebbe seriamente rischiato la deriva. Saltata la prova del nove a Benevento, il derby non ha fatto altro che confermare che non si era trattato di un placebo ma che una nuova tendenza era stata tracciata. Il karma che fin qua aveva accompagnato la truppa d Pecchia era stata la fragilità disarmante. Di colpo il gruppo appare molto più solido, convinto, e meno timoroso. In campo va con la cazzuola in una mano e il secchio di  malta fina nell’altra a mettere pazientemente mattone su mattone. Condizione sine qua non per chi suda in canotta per guadagnarsi il pane quotidiano e poter guardare a domani. Superfluo dire che questo spirito operaio ci piace. Non chiedevamo altro. 

Abbiamo affrontato e vinto il derby senza Romulo, Valoti, Cerci, e Kean. Tanta roba per noi. Conforta sapere che li riavremo presto, ma ancor di più che chi va in campo non li fa rimpiangere. Calvano si muove con la padronanza di un titolare di lungo corso. Il modo con cui sì è impossessato del centrocampo colpisce per personalità e maturità. Bene che la soluzione lì in mezzo l’avessimo in casa. Matos è duttile, utilissimo e bravo ad accorciare le linee. Petkovic ha grande talento e forza fisica, prima o poi la caccerà pure dentro. Felicioli ha fatto vedere che se sta in pianta stabile in nazionale under 21, non è per caso. Franco Zuculini è un esempio per tutti: quando sente aria di corrida si esalta senza trascendere come capitava troppo di frequente al fratellino. La difesa con l’arrivo di Vukovic ha acquisito sicurezza e lucidità. Pecchia ci sta mettendo del suo nell’ostinato lavoro su un gruppo trasversale, piuttosto che su una piramide gerarchica. Tutti necessari, nessuno indispensabile, prendere o lasciare. 

Basterà? Non lo saprebbero dire nemmeno Frate Indovino o la sacerdotessa Pizia all’Oracolo di Delfi. Figurarsi noi, comuni scrivani. Una cosa è però certa: altri modi per provare a realizzare l’impresa e centrare un obiettivo che solo fino a qualche settimana fa pareva una chimera, non ne conosciamo. Lo ha capito anche il popolo (il cui cuore è uno straordinario valore aggiunto) che sabato sera si è stretto attorno alla squadra applaudendone lo spirito pugnace e indomito. Adesso non rimane che proseguire il cammino su questa strada impervia e polverosa; sempre avanti insieme, un passo alla volta chiunque ci troveremo davanti, fino a che ci sarà uno sporco pallone da spedire in rete per nutrire la speranza. Ci piace vederla così. Fino alla fine.
 

Sezione: Editoriale / Data: Lun 12 marzo 2018 alle 16:00
Autore: Lorenzo Fabiano
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